Già da prima che un bambino nasca, si inizia a fantasticare su come sarà e a chi assomiglierà. Si pensa a come cambierà la nostra vita, che sicuramente verrà stravolta: quando nasce un bambino nascono anche una mamma e un papà.
Oggi vi voglio raccontare l’esperienza diretta di una donna e della sua gravidanza fino alla nascita del bimbo, una nascita diversa da come era stata immaginata, e il dopo, quello che effettivamente cambia nella vita di una coppia.
Ovviamente appena si viene a conoscenza di essere incinta le emozioni sono tante. Inizialmente gioia, stupore, felicità, ma poi anche paura…si affollano in mente mille domande: sarò in grado? Riuscirò a prendermi cura di un bambino? La gravidanza andrà bene?
Nonostante questo, la gravidanza della mamma di cui parlo è stata molto serena, ad ogni visita di controllo ed ecografia era tutto ok, il bimbo, perché è un maschietto, cresce bene.
La mamma ha veramente sofferto poco di nausee, quasi per niente: anzi, nel primo trimestre molte mamme si sentono stanche e assonnate, la nostra mamma sì, si stancava, ma non eccessivamente. Anzi, il primo trimestre, nonostante sapesse di aspettare un bimbo, ha continuato a lavorare con i bambini.
Con qualche senso di colpa qua e là, ma è una persona che non riesce a stare ferma.
In tutto questo ovviamente il papà era presente: quasi “moribondo” quando ha saputo della gravidanza, si è steso sul divano dicendo: “Oddio svengo!”. Ci ha messo un po’ di più a metabolizzare la notizia ma è stato super contento. Ancor di più quando durante l’ecografia ha scoperto che sarebbe diventato padre di un maschietto: ha esultato davanti la faccia sgomenta del dottore!
Le lunghe camminate hanno allietato le giornate della mamma quando il pancione cresceva sempre più. Camminare nella natura aiuta a trovare una pace interiore che fa bene alla mente e al corpo.
Durante le camminate la mamma pensava e immaginava come sarebbe cambiata la sua vita di lì a poco. La casa era pronta per accogliere il bimbo: la culletta, il fasciatoio, ma anche i vestitini, le tutine e i body.
L’entusiasmo della nonna era incontenibile, come lo è la gioia di tutte le donne che stanno per diventare nonne.
Si avvicina la data del parto, manca poco più di una settimana: la notte alle 2, mentre si alza per andare in bagno, la nostra mamma rompe le acque. O meglio, allora non lo sapeva, lo ipotizzava. E aveva ipotizzato bene.
Così con il compagno si reca in ospedale: lei abbastanza tranquilla, il compagno molto agitato, come se dovesse partorire lui!
La donna, ripensandoci, non si spiega come sia riuscita ad essere così calma e rilassata, nonostante qualche doloretto e l’evidente avvicinarsi del parto. Anche pensandoci, non ha mai avuto paura del parto, a differenza di molte donne che temono questo momento.
Nonostante la rottura delle acque, il bimbo non vuole venire al mondo: quindi alla donna viene indotto il parto. Un travaglio nel vero senso del termine, pesante e lungo.
Quando il bimbo viene fuori c’è un problema: la neomamma si accorge che c’è qualcosa che non va, il dottore e l’ostetrica si guardano. Anche il papà del bimbo percepisce qualcosa di strano.
Quando il bimbo è nato si è rotto il cordone ombelicale: tecnicamente in termini medici ciò che è successo si chiama inserzione velamentosa del funicolo. In parole povere, le mie, il cordone ombelicale in condizioni normali è attaccato alla parte centrale della placenta; in questo caso invece i vasi sanguigni erano attaccati ai lati, per cui quando il bimbo è uscito si è rotto il cordone perché l’attacco era debole.
La rottura del cordone ha fatto sì che al bimbo arrivasse poco sangue: nella concitazione del momento la mamma ha capito poco o nulla e ha solo avuto la possibilità di vedere il bimbo due secondi, poggiato sul suo petto, notando che aveva un colore grigetto, bianco.
Il bambino è stato subito portato via e ricoverato nel reparto di Terapia Intensiva Neonatale.
Probabilmente la mamma ricorderà a vita quell’immagine, il suo bimbo con quel colorito e tutta la preoccupazione di quei momenti.
La donna di cui sto parlando sono io e se ho voluto raccontare e condividere questa storia, è perché quello che ci è successo mi ha profondamente segnata, come donna e come mamma.
Il mio bimbo, che si chiama Francesco, ed è oggi un bel bambino vispo e sveglio di quasi due anni e mezzo, è stato ricoverato per una settimana scarsa in terapia intensiva. Tutto si è risolto per il meglio, ma i primi giorni penso che siano stati i più brutti della mia vita.
Con la costante preoccupazione che lui non stesse bene e che potesse riportare dei danni in futuro. Spossata dal parto, vedevo le mamme che stringevano i loro bimbi e io non potevo avere vicino a me il mio. Un’esperienza veramente struggente in tutti i sensi: per entrare in terapia intensiva i genitori devono indossare dei camici verdi, delle cuffiette e dei soprascarpe.
Si devono lavare accuratamente le mani e poi possono avvicinarsi all’incubatrice o alla culla termica del loro bimbo.
La seconda volta che ho potuto vedere il mio bimbo è stato appunto tramite un vetro, quello dell’incubatrice, attaccato a dei fili. Dove ho potuto toccarlo solo con le mani, da dei buchetti laterali.
Immaginate cosa possa significare tornare a casa senza il proprio bimbo: chi è mamma può capirlo sicuramente. Dopo nove mesi nella mia pancia, sentivo che mi mancava qualcosa; io sono stata dimessa, invece lui è rimasto qualche giorno in più in ospedale.
La prima volta che l’ho preso in braccio ancora non potevo credere che fosse mio figlio e avevo paura di fare qualche danno toccando i fili che aveva attaccati al corpo.
Allattarlo in TIN non è stato per niente facile, chi ha vissuto un’esperienza così può capire. In quei giorni ero frastornata e di certo non avrei immaginato un periodo post-parto così.
Se ci ripenso, penso che siano stati i giorni più lunghi della mia vita. Andavo in ospedale due volte al giorno e potevo stare un’oretta: per provare ad allattarlo, per stare con lui e per fargli sentire il mio calore e la mia vicinanza.
Dopo una settimana Francesco finalmente è stato dimesso, stava bene e ci hanno solo prescritto dei controlli nelle settimane e nei mesi successivi.
Tornati a casa la situazione è stata altalenante: un po’ sentivo il peso dei miei genitori, suoceri, di mia sorella che era venuta da Bologna per vedere mio figlio, e l’ha potuto vedere solo in foto, appunto perché è stato ricoverato. Immagino che tutti abbiano sofferto per ciò che è successo, non poter vedere il bimbo appena nato e non poterlo abbracciare…i momenti dopo la nascita dovrebbero essere momenti di gioia: per noi sono stati momenti di ansia e preoccupazione.
Piangevo spesso, anche quando abbiamo portato Francesco a casa. Perché non riuscivo ad allattarlo, perché non mi sentivo in grado di accudirlo, o semplicemente perché ero in balia degli ormoni. Per tutto quello che avevamo vissuto.
Probabilmente un momento così duro e difficile mi avrebbe potuto portare alla depressione post-parto, ma così non è stato: o perché conoscevo già il fenomeno come psicologa, o per fortuna, per le mie capacità di saper affrontare la situazione, o per l’aiuto di chi era intorno a me, ho superato questo momento.
La depressione post-parto provoca nella mamma tristezza, crisi di pianto, irritazione, difficoltà nei ritmi sonno-veglia e difficoltà nell’alimentazione. La neomamma non si sente di grado di accudire e prendersi cura del proprio figlio.
In base ai dati del Ministero della Salute la depressione post-partum è un disturbo che colpisce dal 7 al 12% delle mamme e si presenta tra la 6° e la 12° settimana dopo la nascita del bimbo.
E’ grazie all’aiuto della mia famiglia e del mio compagno se piano piano le cose sono andate meglio, ho iniziato a godere della mia relazione con mio figlio e a ricevere delle piccole gratificazioni che hanno sempre più rafforzato il nostro rapporto.
La mia vita è stata stravolta, se dovessi pensare alla mia quotidianità prima di diventare mamma mi sembrano passati decenni…eppure sono passati solo due anni.
Se ho voluto raccontare la mia storia e il mio vissuto è perché io, ingenuamente, o forse perché psicologicamente non si pensa mai che qualcosa possa capitare proprio a noi, fantasticavo e immaginavo la nascita di mio figlio completamente diversa.
Ed è per questo che oggi, come mamma, e come professionista, collaboro con un’associazione che dà sostegno psicologico ai genitori di bimbi nati prematuri o comunque che vengono ricoverati in Terapia Intensiva Neonatale.
Perché so quello che si prova e quanto sia difficile non poter abbracciare il proprio bimbo nei primi giorni di vita, ma a volte anche per diverse settimane, doverlo guardare attraverso un vetro, con un’ansia e una preoccupazione constante, ma con la speranza nel cuore che i dottori un giorno ti dicano che sta meglio, e che presto può tornare a casa.
Oggi, a distanza di due anni, se ripenso alla nostra esperienza ho ancora il magone: fino a qualche mese fa non riuscivo a guardare le foto di quando Francesco è nato, avevo una sorta di rifiuto.
Ora le guardo, sempre con un po’ di tristezza per com’è andata; ma anche con tanta gioia, perché alla fine si è risolto tutto per il meglio, forse grazie ai dottori, o grazie al destino, non so.
E spero che semmai dovessi avere un altro bimbo non andrà così, ma ora con la consapevolezza che non sempre tutto va come avremmo voluto.
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